PATTI (MESSINA) – Si accorge che una donna è stata abusata guardandola in faccia e il primo contatto fra loro è un abbraccio. Poi distribuisce vestiti e giocattoli a tutti, non solo ai bambini. E’ questa la speciale ‘procedura’ di accoglienza con cui Giorgia Butera, sociologa e presidente della Mete Onlus, zaino in spalla, va nei porti della Sicilia ad attendere i migranti agli sbarchi.
Quello sguardo, racconta intervenendo all’Indiegeno Fest di Patti, dedicato quest’anno al tema dei migranti, “è uno sguardo di paura, non diretto e una donna che non ti guarda è una donna che te lo sta dicendo proprio: ‘Io sono stata abusata, ho bisogno di te’. In quel momento è importante ascoltare la loro storia, bisogna farle sfogare”. E sono storie impressionanti: “Ricordo, nel penultimo sbarco dalla Libia- aggiunge Giorgia- racconti di donne che vengono abusate da più uomini, che vengono prese a martellate per stonarle, per renderle più confuse. Le violenze arrivano anche durante le traversate in mare e poi continuano. Vengono rese prigioniere, perché quella donna è considerata una prostituta, sempre”.
Al porto, le donne con i loro bambini passano attraverso le altre procedure, quelle burocratiche, e poi proseguono il viaggio su strada, dirette quasi tutte verso il nord. Non prima però di aver ricevuto vestiti e giocattoli.
“Ho capito un anno e mezzo fa l’importanza di un giocattolo- continua Butera- può essere anche di pezza, o semplici bolle di sapone, il bambino che lo riceve lo stringe subito a sé, passa in un attimo dal pianto al riso e diventa come tutti i bambini del mondo. Dovrebbe essere sempre così perché i bambini sono tutti uguali, ma questi tempi purtroppo li rendono molto diversi”.
Il giocattolo però fa la sua magia, li fa ridere, “si divertono, giocano e poi magari vogliono anche fare il selfie. Ecco, l’obiettivo che mi sono imposta ogni volta è di rendere questa disumanità un gioco”. Giorgia Butera e la sua Onlus in genere seguono gli sbarchi dei migranti su convocazione della Prefettura, ma lei ora lo fa anche per conto suo, perché è lì, sul molo, che intende il suo lavoro, agli sbarchi, per attivare, anche da sola, la sua particolare ‘procedura’ di accoglienza: “Lo sbarco ha un suo odore specifico che mi rimane sempre dentro”, dice. Come quello fortissimo, di carne bruciata che sentì l’anno scorso a Palermo: c’erano 53 salme nella stiva.
Intervista a cura di Teresa Corsaro (giornalista professionista) per l’Agenzia Stampa Nazionale DIRE
8 Agosto 2016