C’è Adila, che su Facebook parla di femminismo e amore utilizzando lo pseudonimo di un’attrice brasiliana. Vuole aiutare le altre ragazze a ribellarsi alla logica violenta e patriarcale dei matrimoni forzati e incoraggiarle a non pronunciare quel «qabool hai», «sì, accetto», che le ha stravolto la vita. E poi c’è Falala. Cinque anni di martirio, prima di riuscire a scappare. I genitori le hanno negato cibo e acqua. La sua colpa quella di non voler sposare l’uomo scelto dalla sua famiglia. Ma poi la fame e la sete sono state più forti e ha ceduto. È il filo rosso che, da Nord a Sud, si stringe al collo di tante ragazze nate e cresciute in Italia. E soffoca sogni e speranze. Storie di ordinaria violenza fisica e psicologica che Giorgia Butera, sociologa palermitana, presidente di Mete Onlus e della comunità internazionale Sono bambina, non una sposa, conosce bene. Giorgia si occupa del fenomeno dal 2014, quando ancora nel nostro Paese non se ne parlava. Una quindicina i lieti fine, ottenuti grazie a un faticoso «lavoro sommerso», che ha permesso a questa realtà di emergere maggiormente rispetto al passato. Ma, ad oggi, nonostante i casi di cronaca, i volontari sono lasciati soli. «La situazione è drammatica. Serve un maggiore aiuto da parte delle istituzioni. Altrimenti il nostro impegno rischia di cadere nel vuoto», ci racconta.
LE ZONE ROSSE IN ITALIA
Un imam, due testimoni e Skype. Tanto basta per diventare spose anche a dieci anni. Il resto verrà formalizzato nel Paese d’origine al compimento della maggiore età. «Gran parte delle segnalazioni e delle richieste d’aiuto provengono dal bresciano e dal palermitano. Si tratta di ragazze che hanno vissuto per anni in Italia o che sono nate qui», spiega Butera. «In queste due aree si concentrano molte comunità straniere. Brescia risulta attraente perché offre molto lavoro, mentre Palermo è il primo approdo per chi vuole entrare nel nostro Paese». Proprio nel capoluogo siciliano è stato aperto dalla Prefettura un osservatorio sul diritto allo studio. «Un primo campanello d’allarme è rappresentato dall’alta dispersione scolastica. Bambine e ragazze spariscono durante le vacanze per non tornare più in classe perché ormai spose. L’istruzione viene vista, infatti, come una minaccia alla loro integrità. E spesso sono vittime anche di mutilazioni genitali».
L’IMPORTANZA DEL DIALOGO CON LE COMUNITÀ STRANIERE
Adila ha lasciato la scuola dopo le medie. Parla benissimo italiano e descrive il suo matrimonio forzato come «un pasticcio». Ma, in fondo, l’uomo che i genitori hanno scelto per lei la tratta bene. «Anche se sa che non lo amo e non ci capiamo mai». Confessare al mondo l’inferno che sta attraversando sarebbe come tradire la propria famiglia. «Falala, invece, mi stringeva forte la mano e continuava a ripetere che sua madre e suo padre avevano ragione. Era lei a essere sbagliata e doveva accettare», racconta la presidente di Mete. Senza misure giuridiche ad hoc, l’unica strada percorribile dai volontari è quella del dialogo con le comunità straniere. «Affrontarle non è mai semplice. Nella maggior parte dei casi negano il fenomeno ma non si può lavorare dall’esterno. Spesso basta uno sguardo per accorgersi che qualcosa non va. Se una donna vive in uno stato di costrizione le tremano le mani, non alza mai gli occhi. Ma se si comincia a dire loro che ci si può ribellare si riesce ad aprire uno spiraglio nel muro della sofferenza». E apertura può davvero significare rivoluzione. «Al termine di un incontro, una ragazza africana mi avvicinò per dirmi che voleva diventare avvocata perché troppe amiche già a 15 anni erano madri». Piccole donne coraggiose che trovano la forza di lottare proprio grazie al dialogo. Come Tasneem, di origine pakistana. «Si era offerta di darmi una mano per battere il territorio palermitano alla ricerca di storie di matrimoni forzati e precoci. Non potrò mai dimenticare lo schiaffo che diede a un suo connazionale che, quasi con orgoglio, ci confessò che presto sarebbe partito per sposare una ragazza di soli 12 anni, che però considerava già troppo vecchia». Se una donna vive in uno stato di costrizione le tremano le mani, non alza mai gli occhi.
COME LAVORANO I VOLONTARI
Nella maggior parte dei casi la segnalazione proviene da un’amica o una conoscente. «Le ragazze il più delle volte stanno sulla difensiva. Rimangono ferme nella convinzione che si tratti della loro cultura e di essere loro a sbagliare». Poi, però, c’è chi riesce a sfondare il muro del silenzio. E si trasformano in torrenti in piena. «Ma questo accade solo se si costruisce un rapporto di fiducia. Devono sapere che tu ci sei e che non sei contro di loro». E questo si traduce anche nel sapere garantire la massima riservatezza. «Bisogna evitare di diffondere le informazioni alla stampa perché altrimenti queste ragazze rischiano di sparire nel nulla. A volte diventa difficile anche ricorrere all’aiuto delle forze dell’ordine perché sono molto diffidenti». In percentuale, sono le donne africane ad aprirsi di più con i volontari. «In Africa c’è un maggior livello di istruzione rispetto all’Asia. Ѐ un continente che vanta una lunga lista di grandi leader che si sono battuti per i diritti umani e che sono diventati con le loro lotte fonte di ispirazione per molte ragazze. Le bambine pakistane, invece, crescono con la consapevolezza che una donna, se non vuole essere punita, non deve mostrarsi in alcun modo. E questo rende molto complesso il nostro lavoro». A complicare il quadro, la mancanza di programmi di protezione adeguati. «Le giovani vengono ospitate da volontarie o persone di fiducia perché ancora non esistono comunità di intervento, né percorsi adeguati in cui poterle inserire».
LO STIGMA DELLE MESTRUAZIONI
Era il 2013 quando Rawan, a soli otto annni, moriva in Yemen per le lacerazioni subite durante la prima notte di nozze. «La massima autorità religiosa del Paese considera donna chi è in grado di procreare. Una convinzione condivisa anche dall’ambasciatore che, durante il nostro incontro, dichiarò che quella tragedia rappresentava la normalità», sottolinea Butera. Due anni più tardi Mete Onlus diventa membro della Ong Girls Not Brides, un movimento globale che fa rete contro il fenomeno delle spose bambine. «Al momento siamo più di 500 istituzioni civili sparse in tutto il mondo che si occupano di combattere questa grave violazione dei diritti umani. I matrimoni precoci sono strettamente collegati allo stigma delle mestruazioni. Non solo avere il ciclo comporta l’essere automaticamente ritenute possibili spose, ma implica anche un’altra serie di problematiche. Le ragazze non vengono più mandate a scuola e spesso sono tenute a digiuno». Tanto che, per rompere questi tabù, Mete si è impegnata a spedire coppette mestruali in Paesi come il Burkina Faso. «Non si tratta di cambiare le altre culture, ma non possiamo permettere che una bambina solo perché ha il ciclo sia considerata donna. Ѐ nostro compito diffondere principi liberali». Avere il ciclo comporta l’essere automaticamente ritenute possibili spose.
IL POTERE DELL’ISTRUZIONE
La prima parola del Corano è «Leggi!». Un insegnamento pericoloso perché, come racconta Butera, «gli uomini sanno che lo studio rende le donne ribelli e libere». Aprire sportelli d’ascolto nelle scuole con più alto tasso di stranieri diventa, quindi, una buona soluzione per contrastare il fenomeno delle spose bambine. «Gli immigrati in Italia sono ormai alla terza generazione. Ecco perché bisogna cominciare a parlare di matrimoni forzati e precoci e suggerire alle bambine come tutelarsi anche in classe». Ma senza un aiuto da parte delle istituzioni e misure economiche adeguate, le associazioni sono ridotte all’impotenza. «C’è bisogno di un supporto giuridico. Fortunatamente, i lavori avviati dal Senato in commissione Giustizia rappresentano un segnale fortissimo». E se la politica comincia a prendere coscienza della questione dei matrimoni precoci, l’opinione pubblica continua a rimanere sorda. Un errore imperdonabile secondo Butera. «Si pensa che tutto ricada sulle comunità straniere. Ma in realtà la negazione di diritti umani costituisce un fenomeno circolare. Ѐ importante prenderne atto».